lunedì 15 maggio 2023

Libertà vigilata e risocializzazione

Quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale, la libertà vigilata è da considerare una misura alternativa alla detenzione, ed in quanto tale concorre alla risocializzazione del reo. Su questi presupposti, la libertà vigilata non è né una misura di sicurezza, né una sanzione aggiuntiva, bensì è la prosecuzione, evidentemente in forma meno afflittiva, della pena già irrogata in origine. Infatti, la liberazione condizionale e la libertà vigilata costituiscono, unitamente considerate, una vera e propria misura alternativa alla detenzione.

La libertà vigilata è dunque una sorta di prova in regime di libertà, finalizzata, analogamente alle altre modalità di esecuzione extra-muraria della pena, a favorire il graduale reinserimento del condannato nella società, ciò anche in considerazione del fatto che la stessa ammissione alla liberazione condizionale anticipa in qualche modo la definitiva estinzione della pena una volta che ne siano decorsi i tempi della sua durata.

Nel caso del condannato all’ergastolo, il cui accesso alla libertà condizionale è consentito solo dopo aver trascorso in carcere ventisei anni, il periodo di libertà vigilata non può che avere una durata fissa e prestabilita, misura accompagnata da prescrizioni ed obblighi definiti dalla magistratura di sorveglianza sul presupposto del caso concreto e del principio costituzionalmente orientato di rieducazione e risocializzazione.

Sicché, se oramai è pacifico che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, allora ciò comporta che tale concetto «non si applica alle sole pene in senso stretto», ma «che, anzi, il principio da esso espresso si irradia su ogni aspetto e momento del percorso trattamentale», e che «proprio le ragioni qui particolarmente sottolineate indicano che il regime in questione può e deve essere rivolto nella direzione della finalità espressa dalla disposizione costituzionale ora in questione».

Del resto, se da un lato è vero che «con l’introduzione del sistema dei benefici penitenziari si può ora valutare progressivamente, ben prima dell’accesso alla liberazione condizionale, il grado di adesione del condannato al percorso rieducativo propostogli», dall’altro lato, è «altrettanto vero che la liberazione condizionale resta, tra le modalità alternative alla detenzione in carcere, quella che dischiude i maggiori spazi di libertà per il condannato, spazi che, da una parte, consentono il più completo reinserimento nel consorzio civile e giustificano, dall’altra, anche in ragione della possibile estinzione della pena, gli opportuni controlli».

Con ciò, la Consulta ha dichiarato «non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze» (Sent. 66/2023).

venerdì 21 aprile 2023

Licenziare per scarso rendimento

Atteso che il licenziamento del lavoratore per scarso rendimento presuppone la dimostrazione di un notevole inadempimento da parte del medesimo, nel caso qui in esame, il giudice dell’opposizione, dapprima operava la conversione del recesso per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato al lavoratore per scarso rendimento, per poi – esclusa ogni ipotesi di ritorsione del recesso datoriale – giungere alla conclusione che, pur essendo stato l’inadempimento del lavoratore limitato nel tempo, l’intensità si era rivelata talmente notevole al punto da comportare – insieme alla mancanza di elementi obiettivi che giustificassero la riduzione dell’attività – la condivisibilità circa la valutazione operata nella sentenza reclamata.

Ebbene, avverso tale decisione, l’interessato ha proposto ricorso per cassazione, ma i giudici di legittimità, richiamando pregressa giurisprudenza, hanno ribadito il principio secondo cui nel «licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro - cui spetta l’onere della prova - non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione».

Infatti, nel caso di specie, la decisione impugnata ha dato conto della contestazione al lavoratore condividendo l’accertamento compiuto dal primo giudice, «rilevando che il ricorrente aveva reso una prestazione lavorativa insufficiente per l’esiguità» dei clienti visitati. Sicché, circa lo specifico profilo di accertamento della gravità dell’inadempimento, il «licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento».

Pertanto, è sempre legittimo il licenziamento del lavoratore per scarso rendimento «qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione» (Cass. Sez. Lav. Ord. 9453/23).

mercoledì 12 aprile 2023

Incapacità dell’imputato

Con riferimento alla sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis c.p.p., per violazione dell’art. 3 Cost., «nella parte in cui non prevede che il giudice dichiari non doversi procedere nei confronti dell’imputato, anche nei casi in cui la sua irreversibile incapacità di partecipare coscientemente al processo discenda da patologie fisiche e non mentali», ed in via subordinata, dell’art. 159 c.p., sempre per violazione dell’art. 3 Cost., «nella parte in cui non prevede che la sospensione del decorso della prescrizione, nel caso in cui dipenda da sospensione del processo per impossibilità di procedere in assenza dell’imputato, non operi anche nelle ipotesi in cui tale sospensione sia imposta dall’impossibilità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo»; la Corte Costituzionale, con la sentenza oggi in esame, si è così pronunciata.

Premesso, che il Tribunale rimettente riferisce che nel giudizio principale è imputata una persona affetta da SLA, malattia che ne ha progressivamente determinato la paralisi con incapacità di parlare e di respirare in autonomia, e che, dunque, l’impossibilità di pronunciare la sentenza di improcedibilità ex art. 72-bis c.p.p. in ragione della natura fisica e non mentale dell’infermità si risolverebbe in un’irragionevole disparità di trattamento, nonché – considerata l’effettività del diritto all’autodifesa –, per partecipazione cosciente al processo «non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui», ma «comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa»; ne consegue che il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell’imputato, intesa con l’aggettivo “mentale”, determina un’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato che non può «esercitare l’autodifesa in modo pieno a causa di un’infermità mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilità per un’infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch’essa» le facoltà di «coscienza, pensiero, percezione, espressione».

Per tali motivi, è costituzionalmente illegittimo l’art. 72-bis c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico»; parimenti, costituzionalmente illegittimi sono l’art. 70 c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce all’infermità «mentale», anziché «psicofisica»; l’art. 71 c.1 c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico»; l’art. 72 c.1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «di mente», anziché «psicofisico» e comma 2, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché «psicofisico». Sicché, l’accoglimento della questione principale comporta l’assorbimento di quella subordinata (Corte Costituzionale, Sent. 65/2023).

giovedì 6 aprile 2023

Responsabilità genitoriale

Con ricorso e motivi aggiunti depositati in atti, (omissis), esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio minore, hanno impugnato dinnanzi il Tribunale Amministrativo Regionale i provvedimenti disciplinari emessi nei confronti del medesimo figlio, in particolare con riguardo all’allontanamento dalla comunità scolastica fino al termine dell’anno scolastico, nonché esclusione dello scrutinio finale, irrogati in conseguenza dei gravi atti commessi nei confronti di un compagno di scuola.

Secondo i ricorrenti, il figlio, prima dell’episodio contestato, ha sempre tenuto un comportamento corretto sia a scuola che fuori dall’ambiente scolastico, e che quindi nella vicenda che ha «originato i provvedimenti impugnati lo stesso minore avrebbe agito sotto l’influenza negativa di un compagno di scuola fortemente problematico e con trascorsi disciplinari, nei cui confronti era diffuso un senso di sudditanza psicologica, e che la condotta del proprio congiunto sarebbe stata di minore gravità rispetto a quella del compagno di scuola».

Ebbene, atteso che sul sito internet istituzionale della scuola risulta pubblicato sia il “Regolamento di Istituto”, sia le “Norme generali di comportamento” con l’individuazione delle sanzioni irrogabili nell’eventualità della loro trasgressione, nel caso di specie il provvedimento di allontanamento (espulsione) risulta comunque essere stato adottato dopo aver sentito le argomentazioni difensive addotte dallo studente alla presenza del padre, il quale ammetteva di aver commesso il grave fatto contestato così come riferito da un educatore scolastico.

Sicché, ravvisata la commissione di fatti astrattamente configurabili come reato e lesivi della dignità della persona umana (violenza privata o sessuale), con valutazione che non appare viziata da profili di irragionevolezza, anche in considerazione del pericolo di reiterazione delle condotte nei confronti degli altri studenti, discende l’infondatezza delle argomentazioni difensive con conseguente legittimità della sanzione dell’allontanamento del minore fino alla fine dell’anno scolastico ed accompagnata dall’esclusione dallo scrutinio finale. E dunque «tenuto conto della gravità dei fatti contestati al ricorrente, e da quest’ultimo ammessi, non si ravvisano i profili di eccesso di potere denunziati dal ricorrente, né può fondatamente ritenersi che il provvedimento sia illegittimo per mancata ammissione dell’incolpato alla conversione della sanzione in attività in favore della comunità scolastica». Inoltre, i motivi aggiunti prodotti dalla difesa, non trovano accoglimento nel merito «in considerazione della valutazione riportata dal ricorrente con riguardo alla condotta, che da sola giustifica la non ammissione all’anno successivo».

In conclusione, il ricorso è stato respinto ed i motivi aggiunti dichiarati improcedibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite oltre oneri ed accessori di legge (TAR Umbria, Sent. 90/23).